In Italia l’intero periodo compreso fra il 1945 e gli Anni ottanta è caratterizzato dall’avvento della società dei consumi di massa. La fase iniziale è difficilissima: nel primo decennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale le condizioni di vita della popolazione stentano a riguadagnare i livelli prebellici. L’Emilia-Romagna – come buona parte del nord Italia – si trova in una situazione particolarmente difficile a causa delle distruzioni dovute ai bombardamenti e a quelle derivanti dalla ritirata nazista che aveva avuto numerosi effetti collaterali: distruzioni dei campi, perdita di ingenti quantità di capi d’allevamento, precarietà degli argini dei fiumi. I settori agricolo e ittico riescono a ripartire solo dopo un lungo lavoro di bonifica dalle mine e dai proiettili inesplosi.

Un radicale mutamento può notarsi già durante la metà degli Anni cinquanta, quando la crescita dei livelli quantitativi e qualitativi nell’alimentazione modifica il rapporto della popolazione con i consumi. La lenta ma progressiva diffusione di elettrodomestici come il frigorifero – e in un secondo momento il congelatore – rende più semplice la conservazione di latticini, uova e carne, che vedono aumentare la percentuale di consumo in rapporto ai vegetali, che restano comunque molto diffusi.

La comparsa dei supermercati modifica riti e spazi del consumo. Il prodotto sfuso, venduto nei piccoli negozi di paese o quartiere, cede progressivamente il passo a quello confezionato e ottenuto con metodi industriali, ciò che avviene grazie a una crescente e incisiva politica del marchio, pubblicizzato sia sui mezzi di comunicazione di massa più tradizionali (giornali e radio) sia in televisione. Programmi come “Carosello” (1957-1977) entrano nella vita quotidiana degli italiani e ne stravolgono il modello di vita.

La motorizzazione di massa comporta anche un diverso approccio alla relazione con il territorio: la costruzione delle prime autostrade rende più agevoli gli spostamenti e comporta la nascita – sul modello americano – di punti di ristoro e rifornimento per i primi viaggiatori. Strade e autostrade avvicinano anche ai luoghi di villeggiatura. Uno fra i più noti è il litorale romagnolo che, dagli Anni sessanta, diventa una delle mete più note del turismo di massa, anche straniero. L’industria alberghiera e della ristorazione si adeguano con effetti contradditori. Se, da un lato, il turismo promuove le specificità agroalimentari locali, dall’altro obbliga all’adeguamento di standard industriali. Una delle conseguenze è la progressiva perdita della dimensione domestica delle attività turistiche, nonostante spesso la gestione di alberghi e ristoranti resti familiare.

La peculiarità del modello socio-economico emiliano romagnolo (spesso definito “modello emiliano”) favorisce la crescita di numerosi distretti specializzati in determinati settori dell’agroalimentare che portano alla formazione di grandi marchi di livello nazionale – si pensi in particolare alla Barilla – e a importanti cooperative attive nel settore produttivo, distributivo (si pensi al campo dei latticini, dei salumi e della frutta in conserva e della nascente Grande Distribuzione Organizzata) e nella ristorazione aziendale. Nella logica della razionalizzazione produttiva del settore alimentare si muove attivamente anche l’industria meccanica.

La presenza capillare di numerosi stabilimenti lungo la via Emilia porta all’esigenza di luoghi di ristoro per una classe operaia e impiegatizia sempre più slegata dal mondo rurale. È in questo contesto socio-economico che l’azienda di capitali e la cooperazione trovano un terreno adatto allo sviluppo di nuovi consumi.

E tuttavia per molti osservatori queste abbondanze portano effetti negativi. Intorno alla metà degli Anni settanta s’inizia parlare della perdita del legame tra cibo e territorio, motivata dall’industrializzazione. La Guida Gastronomica del Touring Club Italiano del 1969 propone di rimediare dandosi due obiettivi: la compilazione di un elenco di piatti regionali, prodotti locali e luoghi in cui si possono trovare e consumare queste specialità; la necessità di «ridestare l’interesse per certi prodotti e mangiari, elaborati da una secolare civiltà, che il deprecabile livellamento e standardizzazione della cucina ha messo al bando dalle mense di alberghi, ristoranti, trattorie, e di farli rivivere per il piacere dell’autentico buongustaio» (1969; 6).

Nella Guida la descrizione della gastronomia emiliano-romagnola si sofferma in particolare sulla pasta ripiena – con una lunga digressione sui tortellini e sulla loro storia – sui salumi e sui formaggi, sottolineando le differenze di preparazione e consumo in termini “tradizionali” e storici, mettendo quindi in luce un passato e una caratteristica specifica per ogni prodotto, legato intrinsecamente al proprio territorio. Questa ricerca dell’autenticità e della tradizione trova nei consorzi uno strumento per la salvaguardia e la valorizzazione dei prodotti. Si pensi al caso del Consorzio del Prosciutto di Parma (nato nel 1963) o di quello del Parmigiano Reggiano (nato nel 1938, ma che solo nel 1964 indica tra i propri compiti la promozione e tutela della tipicità del prodotto). 

La diffusione di una cultura gastronomica della “tradizione” trova spazio anche su riviste che, in collaborazione con associazioni attive sui territori, tentano di attivare l’interesse delle massaie-consumatrici nella codificazione delle ricette locali, soprattutto di paste all’uovo e ripiene.

Dopo un decennio di crisi, il nuovo rilancio dei consumi degli Anni ottanta sembra replicare tendenze di crescita simili a quelle del boom economico. In effetti l’espansione c’è ma riguarda soprattutto l’aspetto qualitativo. La terziarizzazione e l’aumento delle donne impiegate nel mondo del lavoro modificano la quotidianità domestica: è sempre più utile avere a disposizione alimenti veloci da preparare e semplici da conservare. Assume importanza l’industria dei surgelati e si assiste alla destrutturazione dei pasti, con la cena che diventa il principale momento di condivisione del cibo in ambito domestico. Contemporaneamente si modificano i luoghi del consumo, in linea con le nuove tendenze dei gusti giovanili che decretano il lento ma inesorabile declino delle osterie a vantaggio di discoteche o pub. Le scelte alimentari si connettono sempre più strettamente allo stile di vita, mentre la sensibilizzazione contro l’inquinamento porta alla ricerca di cibi sani e genuini, prodotti nel rispetto dell’ambiente.

La nuova immagine, spesso contradditoria, che attira il consumatore richiama simbolicamente le caratteristiche di un mondo contadino perduto, evocato per cibi di produzione industriale. Seguendo questa tendenza molte aziende emiliano-romagnole associano regali ai prodotti (è l’età dei gadget) pensati per rendere concreta la relazione tra consumo e tradizione, genuinità e autenticità.  

Dalla seconda metà degli Anni settanta, inoltre, il grande sviluppo del Made in Italy (connesso in particolare ai settori dell’abbigliamento, del calzaturiero e dell’alimentare) contribuisce alla diffusione delle specialità gastronomiche regionali anche fuori dai confini nazionali. Molti prodotti – come cappelletti, tortellini, tagliatelle, vini, prosciutti e formaggi – conoscevano da tempo un mercato di esportazione, ma questo era spesso legato e chiuso alle comunità di emigrati italiani. In questo periodo il mercato dei prodotti tipici si apre a una dimensione globale che porta alla ribalta non solo i prodotti ma anche le politiche necessarie alla difesa dai pericoli di un sempre più diffuso Italian sounding (si pensi soprattutto al caso del Prosciutto di Parma e del Parmigiano-Reggiano).