I fatti di Caporetto irrompono nella scena italiana in modo drammatico. Oltre ai caduti - più di 11.000 - circa 300.000 soldati si sono arresi e sono stati fatti prigionieri: 100.000 il 28 ottobre e 200.000 il 3 novembre. Come riporta John Dickie: “la triste sorte di questi uomini è sintomatica dell’insensibilità con cui fu condotta la guerra: nella caccia ai capri espiatori scatenatasi dopo la disfatta, gran parte della responsabilità fu gettata sulle spalle dei prigionieri di guerra, bollati come disertori dalle autorità militari e lasciati a morire di fame” (Con gusto. Storia degli italiani a tavola). In effetti la vita nei campi di prigionia è durissima e una delle difficoltà più grandi è proprio la carenza di cibo. Già al fronte la discontinuità dei rifornimenti alimentari era stata una delle principali cause del basso morale delle truppe, ma nei campi la situazione si fa insostenibile. Secondo una ricostruzione recente, “la razione di cibo quotidiano è costituita da un caffè d’orzo al mattino, una minestra di acqua con qualche foglia di rapa a mezzogiorno e a cena una patata con una fettina di pane integrale ed un’aringa. Due volte alla settimana un minuscolo pezzo di carne. Sono circa 800 calorie al giorno, contro un minimo di 1.300 stabilito dalle Convenzioni internazionali e una necessità di 3.000 nei luoghi più freddi. Per lenire la fame i prigionieri ingeriscono grandi quantità di acqua e ingoiano erba, terra, legno, carta; da qui diversi casi di dissenteria acuta” (Mirco Carrattieri, Dentro la guerra, la guerra dentro in Voci e silenzi di prigionia. Cellelager 1917-1918, Roma, Gengemi, 2015).
E proprio in uno di questi campi a Celle, vicino ad Hannover, il sottenente Giuseppe Chioni, sognando ciò che ha lasciato nella cucina di casa, intraprende la raccolta di ricette regionali italiane cui dà il titolo di Arte Culinaria.