I prodotti a marchio Coop rappresentano un elemento distintivo della grande distribuzione italiana, nonché della cultura del consumo emiliano-romagnola, territorio regionale che ha rappresentato uno dei fulcri nevralgici del movimento. La peculiarità di questo marchio (o brand) è stata l’attenzione a elevati standard di genuinità e salubrità che è andata incontro all’esigenza dei soci delle cooperative di potere accedere al consumo di prodotti di qualità con il rispetto di specifiche cautele. Si è trattato di una scelta che ha avuto un impatto positivo su tutto il mercato e, anche a seguito di adeguate campagne promozionali e informative, i prodotti a marchio della cooperazione di consumo hanno contribuito a un’educazione alimentare tutt’altro che banale, che ha spesso obbligato la concorrenza a «inseguire» Coop sul medesimo terreno.

La storia delle cooperative affonda le sue radici nell’Inghilterra di metà Ottocento, dove sorsero i primi negozi di proprietà dei consumatori che praticavano prezzi convenienti e garantivano una maggiore qualità degli alimenti. Nel giro di pochi decenni questa tipologia di punti vendita si diffuse in tutto il mondo; in Italia diede origine a centinaia di piccole esperienze locali che, dopo processi di fusione e integrazione, sono stati alla base dell’odierna catena di supermercati Coop.

Arrivando al presente si può notare come uno dei punti di forza della grande distribuzione organizzata sia il «prodotto a marchio»: merce venduta in via esclusiva, con un brand che richiama l’insegna. Nella fattispecie gli articoli con il sigillo Coop hanno una storia peculiare, che ha il suo baricentro in Emilia-Romagna dove sono state operate per la prima volta scelte pionieristiche e innovative.

I marchi commerciali nacquero con la funzione di rafforzare il rapporto fra venditore e consumatore ed erano applicati a prodotti le cui vendite erano da tempo consolidate. Ubbidivano alla logica per la quale, a cavallo fra XIX e XX secolo, chi comprava riponeva la propria fiducia sul negoziante, non sul produttore. Già in quegli anni, in maniera episodica, alcune cooperative di consumo italiane realizzarono dei prodotti con un proprio brand. Sembra che la prima esperienza in tal senso sia ascrivibile alla Cooperativa di consumo di Rivalta (Reggio Emilia), che nel 1885 commercializzava carni confezionate (ma la storiografia non ha potuto appurare con certezza se vi applicasse un proprio marchio). È sicuro, invece, che nel 1896 l’Unione cooperativa milanese confezionò con il proprio nome dei panettoni, e che nel 1899 l’Alleanza cooperativa torinese vendesse alcuni prodotti con un brand esclusivo.

Fra le migliaia di cooperative di consumo degli anni Dieci e Venti ve ne erano diverse fra le maggiori che avevano introdotto dei marchi di fantasia per i propri prodotti più venduti. In tutti questi casi è importante notare come prevalesse la volontà di garantire la qualità piuttosto che il prezzo basso. Spesso il prodotto a marchio si distingueva perché sottoposto ad analisi e certificazioni che garantivano l’assenza di sostanze nocive. Naturalmente si trattava di brand usati esclusivamente nel mercato locale. E quindi mancavano marchi cooperativi condivisi che insistessero su tutto o quasi il territorio nazionale.

Nessuna delle marche di fantasia riconducibili alle cooperative di consumo utilizzava la parola «Coop». Solo le Cooperative operaie di Trieste impiegarono la dicitura «Co-op» (col trattino) per uova e biscotti, quale evoluzione del loro marchio più diffuso, «Cooperator», che era presentato come un segno distintivo «per quelle merci che vengono fabbricate sotto il controllo diretto della cooperativa stessa» e che offrivano «all’acquirente la garanzia assoluta che egli riceverà merce genuina sotto ogni punto di vista». La creazione nel 1927 del consorzio nazionale della cooperazione di consumo (Ente centrale approvvigionamenti: Eca, poi Eica) spinse alla produzione, a partire dagli anni Trenta, di articoli con un proprio nome: il sapone da toletta, la cioccolata, la pomata per calzature, i pomodori in scatola. I primi esiti delle vendite non furono esaltanti, ma era stata tracciata una prima strada da seguire.

Dopo la seconda guerra mondiale fu fondato un nuovo consorzio (Alleanza italiana delle cooperative di consumo: Aicc, poi Coop Italia), con sede legale a Roma e sede operativa in Via San Giorgio a Bologna, che nel 1948 lanciò un programma ambizioso per il prodotto a marchio. Per la prima volta veniva utilizzata la dicitura «Coop» – che non era ancora l’insegna della cooperazione di consumo, se non episodicamente in qualche realtà locale –, inoltre il numero dei prodotti interessati era ampio: a maggio del 1948 vennero lanciati i saponi e il cioccolato, a giugno il caffè, il cacao, le marmellate e le confetture, a luglio lo zabaione e le polveri per rendere l’acqua effervescente, ad agosto le conserve alimentari, a novembre la pasta. L’anno successivo era la volta dell’olio d’oliva, della cera per pavimenti, dell’insetticida, dei rasoi, della gianduia, del miele, delle caramelle, dello zucchero vanigliato, dei sottaceti, delle verdure in scatola, dei liquori, dei vini e del formaggio. Tuttavia nemmeno questo progetto diede i risultati attesi, soprattutto per via dell’ancora troppo accentuata frammentazione della cooperazione di consumo nazionale. Basti pensare che nel 1946 erano censite ben 2.798 cooperative, molte delle quali con un unico negozio, per un totale di un milione e mezzo di soci. In sintesi il neonato marchio Coop conviveva ancora con numerosi altri marchi commerciali di fantasia elaborati a livello locale.

Ma la situazione e le strategie andavano via via definendosi. Il sigillo Coop assumeva in quegli anni un duplice significato: se da una parte garantiva un certo standard qualitativo, dall’altra esprimeva l’appartenenza al mondo della cooperazione nel suo complesso. Di qui un dibattito, interno alla cooperazione di consumo, tra chi sosteneva che il marchio Coop dovesse essere utilizzato solo per prodotti fabbricati da imprese cooperative e chi, viceversa, ne sottolineava la valenza commerciale anziché industriale.

Nel 1963 si stabilì che tutti i negozi della cooperativa avrebbero avuto la medesima insegna (Coop), il cui progetto grafico fu affidato al noto designer Albe Steiner. Pochi anni dopo, nel 1974, si decise di mettere ordine anche nel prodotto a marchio, utilizzando dei brand di fantasia abbinati a un sigillo Coop. Erano otto: Val Bianca per i latticini, Corral per la carne in scatola, Babette per biscotti e pasticceria, Sol d’Oro per i prodotti agricoli trasformati, Danke per i detergenti, Mares per le conserve di pesce, Ely per l’igiene personale, mentre la semplice dicitura Coop era utilizzata solo per liquori, panettoni e caffè. Ma era una scelta transitoria, in attesa di poter garantire livelli qualitativi e controlli ulteriormente elevati, in obbedienza a una tradizione che prescriveva l’acclarata qualità del prodotto a marchio. Un apposito team, espressione delle principali cooperative emiliano-romagnole e toscane, si occupò di lavorare in questa direzione.

Nel 1976, in un seminario dei gruppi dirigenti ad Anzola dell’Emilia, si valutò che la cooperazione di consumo italiana fosse pronta per il passo successivo, ovvero l’abbandono dei brand di fantasia e l’adozione del solo marchio Coop. Si trattava di 284 articoli, quasi tutti di largo consumo, che avevano la fondamentale caratteristica della validità nutrizionale e della difesa della salute. Era una connotazione fondante – unica nei prodotti per la grande distribuzione – ben comunicata sulle confezioni, nei volantini e manifesti pubblicitari: alimenti senza coloranti, carne in scatola senza nitriti, conserve senza additivi chimici, eccetera.

Fu un successo travolgente: i nuovi prodotti a marchio Coop furono particolarmente apprezzati dai consumatori e per tutti gli anni Ottanta il loro tasso di vendita fu al di sopra di quello della rete di distribuzione. Era un risultato derivante anche dalle garanzie di una genuinità che in quel periodo sembrava fortemente messa in discussione da fatti di cronaca preoccupanti e inediti. Infatti, l’opinione pubblica era rimasta particolarmente colpita da frodi e adulterazioni alimentari, fra le quali gli scandali della carne con estrogeni, dell’ortofrutta seriamente contaminata dai pesticidi e del vino al metanolo.

Nel 1982 Coop Italia creò presso la propria sede di Casalecchio di Reno un laboratorio dedicato alla ricerca e ai controlli sulla qualità degli alimenti, che lavorò in particolare sui prodotti a marchio, con frequenti e ripetute verifiche nelle aziende produttrici. Nessun’altra catena di supermercati poteva contare su una struttura di questo genere.

Nel corso degli anni Ottanta si ebbe un aumento delle merci interessate dal sigillo Coop e si decise di assumere un nuovo valore nella politica di marchio, ovvero quello della tutela dell’ambiente. La prima battaglia fu sui livelli di fosforo nei detersivi. Con la campagna «bianco il bucato, azzurro il mare», si invitavano i consumatori a scegliere quelli Coop, con livelli di fosforo al di sotto di quelli imposti dalla legge e dal 1988 privi di questo additivo, perché nel frattempo la ricerca aveva messo a punto altre soluzioni più ecologiche per garantire sia la qualità del bucato che un minore impatto sull’ambiente. Sempre nel 1988 partì la campagna «C’è uno strappo nel cielo: fermiamolo» che informava che i prodotti a marchio Coop come i deodoranti spray e simili non contenevano clorofluorocarburi, responsabili del buco dell’ozono.

E così gli anni Novanta furono contraddistinti da un nuovo boom dei prodotti Coop, sempre più scelti da consumatori attenti alla qualità, alla sicurezza alimentare al rispetto dell’ambiente. Le merci con il brand Coop raddoppiarono le vendite e raggiunsero livelli inimmaginabili fino a dieci anni prima, mentre la ricerca proponeva soluzioni ulteriormente innovative, ad esempio con la scelta di non impiegare gli organismi geneticamente modificati (ogm), l’introduzione dei flaconi alleggeriti (prodotti con plastica riciclata), e la crescente proposta delle ricariche (per consentire il riutilizzo dei contenitori).

Il resto è storia recente, con una segmentazione per famiglie merceologiche che ha contraddistinto gli anni Duemila: la linea premium, ovvero di eccellenza, denominata Fior fiore Coop, gli articoli equo-solidali etichettati Solidal Coop, i prodotti derivanti dall’agricoltura biologica Vivi verde, gli alimenti con una filiera tracciata e di qualità Origine Coop, gli articoli per l’infanzia Crescendo Coop e quelli per la cura della persona BeneSì. Inoltre, è stata introdotta la prassi di far testare i prodotti a marchio Coop da consumatori selezionati fra la base sociale, dando vita al progetto «approvato dai soci».

In sintesi i prodotti Coop sono stati storicamente il primo marchio di largo consumo e di carattere nazionale a contraddistinguersi in termini di genuinità e salubrità. Ma, al di là di questo palcoscenico italiano, la loro ideazione e il loro sviluppo è assolutamente imperniato sull’Emilia-Romagna, una regione con forti tradizioni cooperative che voluto e saputo coltivare la scelta di una crescente tutela dei consumatori.

Bibliografia:

  •  Patrizia Battilani, Nascita e sviluppo dei marchi commerciali, in Enea Mazzoli, Vincenzo Tassinari (a cura di), Coop Italia, Roma, Liocorno, 1997, pp. 125-179.
  •  Vera Zamagni, Patrizia Battilani e Antonio Casali, La cooperazione di consumo in Italia. Centocinquant’anni della Coop consumatori: dal primo spaccio a leader della moderna distribuzione, Bologna, Il Mulino, 2004.
  •  Massimo Bongiovanni, Alle origini della leadership. La cooperazione di consumo in Italia (1854-1980), Bologna, Clueb, 2018.