Già nell’inverno 1941-1942 l’unica possibilità di procurarsi il necessario per alimentarsi e sopravvivere è il ricorso alla borsa nera, un mercato parallelo e illegale.

Il regime non riesce a costruire un efficace sistema di gestione degli approvvigionamenti; in particolare, il razionamento si dimostra inefficace perché non sostenuto da un’adeguata politica degli ammassi e produce da subito la rarefazione, se non la scomparsa, degli alimenti tesserati, con una contestuale moltiplicazione dei fenomeni di accaparramento e di speculazione.

Nel momento in cui le razioni, già scarse, iniziano ad avere una distribuzione del tutto saltuaria, il mercato nero, trasformandosi da integrativo a sostitutivo, diventa un fenomeno estremamente diffuso, nonostante l’attività di vigilanza e repressione esercitate dalle forze dell’ordine (solo a Bologna fra il dicembre 1941 e il marzo 1942 si segnalano 360 condanne per trasgressioni annonarie inflitte dal Tribunale e dalla Pretura).

Gli italiani riescono a nutrirsi solo ricorrendo ai borsaneristi. Si passa da una fase in cui l’alimentazione si basa principalmente sui generi (e le quantità) distribuiti tramite il mercato ufficiale ad un periodo in cui i prodotti acquistati al mercato nero cessano di essere semplicemente integrativi e divengono sostitutivi di quelli garantiti dal razionamento. Questi ultimi riescono a coprire, infatti, solo una parte del fabbisogno alimentare, non arrivando ad assicurare 1000 calorie al giorno, pari a quelle che all’epoca consumavano i cittadini della Polonia occupata.

L’aumento della richiesta dilata la tipologia dei borsaneristi, anche se chiunque violi le disposizioni intese a disciplinare il razionamento può essere punito, se produttore o commerciante, con un’ammenda da 500 a 5.000 lire e, nei casi più gravi, l’arresto fino a sei mesi; se consumatore con una pena pecuniaria che può variare da 50 a 1000 lire. I commercianti che praticano la vendita sottobanco di merci razionate o il commercio a prezzi maggiorati di alimenti non razionati costituiscono solo una parte della schiera di persone impegnate nella ricerca e nella ridistribuzione del cibo. Nella seconda metà del 1942, difatti, «esistono vari tipi di traffico clandestino nel campo alimentare. Vi è anzitutto quello a base non monetaria, che si svolge nella cerchia dei congiunti e degli amici, fra quelli che stanno in campagna e i residenti in città. Vi è poi il commercio esercitato direttamente dai produttori (che vendono a chi si presenta al loro podere, o allettati dagli alti prezzi correnti in città, vanno in persona al domicilio dei clienti). Un vasto commercio è fatto, infine, da intermediari di cui esistono innumerevoli tipi: dall’operaio che va in bicicletta in cerca di qualche chilogrammo di farina per sé, e ne cede una parte al compagno di lavoro o al padrone, fino al grande incettatore, che ha la sua rete di agenti e di rivenditori, e al commerciante e industriale vero e proprio che, accanto al lavoro palese, ne svolge un altro clandestino, spesso assai più redditizio» (P. Luzzatto Fegiz, Alimentazione e prezzi in tempo di guerra, p. 46).

Dopo l’8 settembre 1943 il mercato nero rimane una costante nel territorio governato della Rsi, anche se nazisti e fascisti vantano il loro attivismo nell’opera di repressione dei contrabbandieri.


Approfondimenti bibliografici:

Pierpaolo Luzzatto Fegiz, Alimentazione e prezzi in tempo di guerra 1942-1943, Trieste, Università di Trieste, estratto da «Annali triestini», vol. 18, 1948.

Giacomo Beccatini, Nicolò Bellanca, Economia di guerra e mercato nero. Note e riflessioni sulla Toscana, in «Italia contemporanea», n. 165, 1986.

Massimo Legnani, Consumi di guerra. Linee di ricerca sull’alimentazione in Italia nel 1940-43, in Università di Bologna, Dipartimento di discipline storiche, Guerra vissuta guerra subita, Bologna, Clueb, 1991, pp. 109-118.