«Per dare un contributo notevole alla campagna alimentare e alle iniziative autarchiche del paese», il regime decide di trasformare i giardini pubblici e i parchi delle grandi città in aree coltivabili dove piantare soprattutto grano, orzo, legumi, patate e «quegli ortaggi che nelle contingenze attuali possono dare un apporto considerevole di nutrimento in parziale sostituzione di quanto, per varie cause, più scarseggia per la popolazione civile: la carne» (Ufficio propaganda Pnf, L’orto di guerra, p. 1).
La nuova disposizione, azione propagandistica più che di seria programmazione, viene salutata con i consueti toni altisonanti dalla stampa di regime: «La parola d’ordine in tempo di guerra è di utilizzare ogni energia, sfruttare ogni risorsa. Obbedendo a questa precisa direttiva è sorta l’iniziativa degli “orti di guerra” moltiplicando i quali non una zolla di terreno produttivo dovrà restare inutilizzata» (Sfruttare ogni zolla, in «Il Resto del Carlino», 26 settembre 1941).
A Bologna gli orti prendono corpo nell’estate del 1941, quando il podestà dispone la semina di tutti i terreni disponibili di proprietà comunale (pari a circa 26 ettari). Tra i più estesi quelli dei giardini Margherita e di villa Putti, ma sono impegnate anche le aiuole del centro cittadino.
Il Comune per invitare i cittadini a utilizzare a tale bisogna i loro terreni privati provvede a collocare nella centralissima via Ugo Bassi uno striscione propagandistico che recita: «Create l’orto di guerra. È il dovere di ogni cittadino italiano». (Sfruttare ogni zolla, in «Il Resto del Carlino», 26 settembre 1941).
Nell’estate del 1942 il grano raccolto negli orti viene trebbiato in piazza Maggiore alla presenza dei gerarchi fascisti: i covoni, raccolti attorno al monumento di Vittorio Emanuele, sono benedetti dal cardinale Nasalli Rocca dalla scalinata della chiesa di San Petronio.