All’inizio del conflitto la razione giornaliera dei soldati al fronte è studiata per apportare mediamente circa 4.000 calorie (4.700 per le truppe sottoposte a lavoro intenso in alta montagna) e consiste generalmente di 750 gr di pane (o 400 gr di galletta), 375 gr di carne, 200 gr di pasta, oltre a formaggio, cioccolato, caffé e un quarto di litro di vino tre volte a settimana. In alta montagna vengono distribuiti supplementi di lardo, pancetta, latte condensato, mentre in trincea è contemplato il consumo di alcolici prima di ogni assalto. Dal dicembre del 1916 e per tutto il 1917 la razione diminuisce per i problemi alimentari di cui soffre il paese, passando a poco più di 3.000 calorie, apportate da 600 gr di pane e 250 gr di carne, sostituita da pesce due volte a settimana. Dopo la disfatta di Caporetto, attribuita anche a depressione morale causata da scarso nutrimento, l’apporto calorico viene nuovamente aumentato, raggiungendo le 3.580 calorie (nello stesso periodo le truppe francesi hanno una razione di 3.400 calorie, quelle britanniche di 4.400).
Preparato nelle retrovie, il rancio è trasportato in prima linea a dorso di mulo mediante le casse di cottura, che contengono delle marmitte coibentate con 25-30 razioni ognuna (da 3 a 4 per ogni compagnia e del peso di kg 55, ciascuna). Esse sono in grado di mantenere una temperatura di 60° C per oltre 24 ore, per cui la cottura avviene in gran parte durante il trasporto. Nei casi in cui i muli non riescano a raggiungere il fronte, vi provvedono intere compagnie di soldati della sussistenza e di alpini, portando a spalla zaini, giberne e sacchi, oppure i cani che, addestrati al Regio canile di Bologna, sono in grado di trainare slitte anche del peso di 150 kg.
All’inizio del conflitto i problemi non riguardano la quantità semmai la qualità del cibo, che spesso giunge freddo e scotto nelle trincee, come ricorda Carlo Emilio Gadda nel suo diario: «Il rancio e il caffé vengono cotti la notte, poiché il Comando brigata Piemonte ha proibito di accendere fuochi durante il giorno, e con ragione. Il caffé vien recato al crepuscolo mattutino, la carne cotta rimane là durante il giorno e recata col rancio di riso o pasta a notte fatta. Gli uomini rassegnati mangiano quindi, verso le 11 di sera, con fame lupina, e prendono il caffé verso le 5 di mattina».
Per ovviare a questo problema i militari ricorrono agli scaldaranci, piccoli cilindri di carta pressata e paraffinata che, inseriti in fornelletti di fil di ferro, permettono di riscaldare le vivande e sciogliere la neve da bere quando, come spesso avviene, viene a mancare l’acqua.
A rendere ancora più drammatica la vita in trincea è, infatti, la limitata disponibilità di acqua potabile per uomini e animali: le acque di superficie sono spesso contaminate o gelate e occorre, anche in questo caso, trasportarla (migliaia di litri al giorno, 4 per ogni soldato) percorrendo carraie, mulattiere e impervi sentieri di montagna.
Le cifre e i numeri, le descrizioni asettiche non riescono certo a restituire la realtà vissuta dai soldati al fronte che nel 1917 patiscono duramente la fame: scarseggiano il pane e la polenta, la carne è praticamente scomparsa e, per sopperire alla sua mancanza, gli italiani sono costretti a rubare i tagli migliori dei cavalli uccisi in battaglia. D’altronde, come ricorda nelle sue memorie Emilio Lussu, i soldati sono ben consapevoli di quanto poco valore abbiano agli occhi dei loro superiori: «Ci preferiscono affamati, assetati e disperati. Così, non ci fanno desiderare la vita. Quanto più miserabili siamo, meglio è per loro. Così per noi è lo stesso, che siamo morti o che siamo vivi».