Nel corso dell’Ottocento l’Italia resta prevalentemente rurale. Per dare conto di questa situazione basti pensare che al momento dell’unificazione (1861) solo un quarto della popolazione italiana vive in centri che superano i cinquemila abitanti; dunque l’alimentazione resta vincolata al tipo di coltivazioni della zona di pertinenza e ai contratti agrari che regolano l’organizzazione sociale del lavoro delle campagne. In Emilia-Romagna, ad esempio, i capitolati colonici non pongono limitazioni all’allevamento del maiale – come accade, invece, in altre zone d’Italia – per questo motivi i mezzadri locali hanno una dieta più ricca di proteine che, grazie alla produzione di insaccati, resta disponibile per buona parte dell’anno. Nelle famiglie contadine la preparazione del cibo dipende dal lavoro femminile e le tecniche di preparazione gastronomiche sono affidate a una lunga tradizione prevalentemente orale. Nelle poche città è possibile accedere a un consumo differente e sicuramente più ricco, ma che non si discosta eccessivamente dalla zona agricola circostante. Questo fattore è da considerarsi alla base della persistenza, ancora in tempi recenti, di un forte carattere regionale delle culture del consumo alimentare.

All’inizio del Novecento qualcosa sembra mutare. L’intervento dello Stato nell’economia del Paese permette investimenti produttivi, ma la crescita è destinata a franare con la guerra. Le condizioni di vita degli italiani peggiorano sensibilmente, segnate da un forte aumento dei prezzi, da marcate restrizioni alimentari dovute a un ferreo controllo dei consumi da parte del Governo e dal deterioramento qualitativo del cibo.

Il periodo che va dalla fine della Prima guerra mondiale allo scoppio della Seconda coincide, quasi per intero in Italia, con la storia del regime fascista. Nel corso degli Anni Venti l'Italia resta sospesa fra un «ruralismo strapaesano», strenuo difensore delle tradizioni locali, del folclore e dell'autosufficienza autarchica e una cultura urbana cosmopolita e modernizzante già sperimentata in età giolittiana, più aperta alle pratiche del consumo di massa. La diffusione della radio, favorita dal regime che ne intuisce le potenzialità propagandistiche, porta al successo forme d’intrattenimento che il mercato pubblicitario usa a proprio favore. Ma anche in questo caso lo slancio ha breve durata. Nel novembre 1935 la Società delle Nazioni impone all'Italia, colpevole dell'aggressione all'Etiopia, le “inique sanzioni”. Il regime risponde con l'imposizione di misure autarchiche che dovrebbero portare all'autosufficienza economica, ma che rappresentano di fatto le prove generali della guerra.

Nel corso della Seconda guerra mondiale la popolazione è costretta a dure misure di razionamento. I prodotti soggetti al controllo sono distribuiti dietro presentazione di una carta annonaria che fissa precise quantità dei generi di prima necessità. Dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione nazista delle regioni centro-settentrionali, l’Italia è divisa in due e, dal punto di vista degli approvvigionamenti alimentari, le privazioni permangono anche nei territori progressivamente liberati dagli Alleati. Nelle zone occupate, e fino al 25 aprile 1945, i sistematici saccheggi e requisizioni da parte della Wehrmacht impoveriscono ulteriormente territori e popolazioni. La fine del conflitto segnerà l’inizio di una difficile fase di ricostruzione.