Settembre 1914. Un trabaccolo al largo di Viserba salta in aria a seguito dell’impatto con una mina austriaca. La notizia riempie le pagine dei giornali nazionali e il rischio di analoghi incidenti impone al Governo misure precise, tra cui il divieto di navigazione nelle acque dell’Adriatico. Per Rimini significa, oltre al collasso del comparto dei trasporti navali, anche il blocco totale di una delle fonti primarie di sussistenza per centinaia di famiglie: la pesca. 

L’Italia non è ancora in guerra, ma la città subisce già le prime ripercussioni. Il conflitto ha, infatti, posto fine anche alla seconda importante industria: quella del forestiere, all’epoca rappresentata in larga parte proprio da turisti provenienti dall’Impero austroungarico. A seguito della dichiarazione di guerra italiana, il crollo dell’economia locale, la crescente mancanza di lavoro e il rincaro dei generi alimentari mettono in difficoltà sempre più strati della popolazione riminese che a fatica riesce a provvedere a una sufficiente alimentazione.

Un tentativo di porre rimedio è quello di aprire un numero maggiore di mense per la distribuzione di pasti a buon mercato (le cosiddette «cucine economiche», che distribuivano per 10 centesimi un piatto di minestra calda). Queste, nei momenti più difficili, giungono a sfornare in media 3.000 razioni giornaliere.

Nel momento in cui si crede di essere riusciti a contenere l’emergenza, Rimini è colpita da uno sciame sismico che, nell’estate del 1916, riduce parte della città in macerie. L’ultima delle tre scosse si abbatte su una città già piegata. Agli ingenti danni materiali (615 edifici da demolire, 229 da puntellarsi, 2.112 da ripararsi) si somma il dramma umanitario. Le cifre parlano di 4 morti, una trentina di feriti e oltre 4.000 persone rimaste senza un tetto. In soccorso giungono i Vigili del Fuoco di tutta la regione che distribuiscono circa 6.000 tende. A salvare la popolazione dalla fame arriva la tempestiva inaugurazione, a pochi giorni di distanza, di un moderno e “tecnologico” mulino a cilindri, che arriva a produrre sino a 19.000 razioni giornaliere di pane.

L’amministrazione esercita un’azione di calmiere sui prezzi attraverso l’istituzione dell’Azienda municipale dei consumi cui è affidato il monopolio del riso, dell’olio e del lardo: tanti i divieti istituiti, da quello della macellazione dei suini sino alla fabbricazione e vendita di dolciumi. Dal 1917 si passa al vero e proprio razionamento, preceduto dalla requisizione di cereali e dal divieto di esportazione del poco pesce racimolato con il metodo della pesca a strascico. Nei primi giorni di novembre entrano in vigore le tessere annonarie per pane e farina. La quantità delle razioni giornaliere è così stabilita: a chi svolge lavori di fatica spettano 500 g di pane (o 300 g di farina), per tutti gli altri 416 g di pane (o 250 g di farina). La porzione è percepita come insufficiente, specie se paragonata a quella delle città limitrofe, non mancando di suscitare polemiche mezzo stampa:

Perché per esempio a Cesena il minimo della razione dev’essere di 330 grammi e a Rimini solo di 300? Perché a Cesena la grande maggioranza della popolazione può avere 420 grammi di pane e a Rimini la grande maggioranza deve contentarsi di soli 300? Perché in certi comuni rurali p. es. a Gatteo le persone adulte, uomini o donne, hanno una razione giornaliera di 500 grammi?

Dal 1° gennaio 1918, allo scopo di evitare «illeciti accaparramenti», sono introdotte tessere anche per pasta, olio e lardo. A marzo entra nelle case dei riminesi l’ultima tessera: quella del petrolio, ancora utilizzato per l’illuminazione di alcune abitazioni.

Negli stessi mesi iniziano ad arrivare in città i primi profughi veneti, esuli del dopo-Caporetto (nell’estate del 1918 saranno oltre 12.000). Rimini si trova a gestire l’ennesima emergenza, senza poter contare, nelle prime fasi del trasferimento, sull’arrivo di necessarie derrate aggiuntive.
La fine della guerra trova una città allo stremo.