Tra le numerose ricette tipiche della provincia di Reggio Emilia i cappelletti hanno un legame stretto con le vicende sociali e politiche novecentesche di questa terra. Il quadratino di pasta all’uovo ripieno di carne e parmigiano reggiano chiuso a “cappello”, servito in brodo di cappone bollente (spesso allungato con un po’ di Lambrusco reggiano), la cui dimensione aumenta (mentre il ripieno cambia) man mano che si scende dall’Appennino alla Bassa, è il piatto per le occasioni speciali. A lungo specialità troppo ricca e costosa per la quotidianità, è, però, presente nelle varie ricorrenze del calendario religioso (Natale, Pasqua, Ferragosto, santo patrono) e laico.

Con l’avvento del regime fascista si fa strada il divieto di celebrare ricorrenze d’ispirazione socialista; ed è proprio dai primi anni Venti che i cappelletti diventano “emblema gastronomico dell’antifascismo”. Alcune memorie orali raccontano che nella zona di Campegine – centro della Bassa dove vivevano i Fratelli Cervi – nel giorno della Festa dei Lavoratori (divenuta la festa fascista soprannominata “Natale di Roma”) un piccolo cappelletto sostituiva il tradizionale – ma vietato e pericoloso – garofano rosso sui baveri delle giacche e sugli abiti. I cappelletti divennero un simbolo così immediato e riconoscibile che i fascisti organizzarono squadre di “stanga caplètt” (bastona cappelletti) con il compito di controllare che nelle case delle famiglie “rosse” non fossero serviti in tavola, così da stroncare anche l’aspetto più conviviale della ricorrenza:

“[…] Fra gli antifascisti, a questi tempi, come è poi tornato dopo il fascismo, si festeggiava il Primo di Maggio, e costumava fare i cappelletti. Allora i fascisti andavano a casa di qualcuno che a loro interessava, all’ora di pranzo del Primo Maggio, a vedere cosa mangiavano. A casa mia, io ero un ragazzo che stava per compiere i cinque anni, cioè nel 1922, venne questa squadra di fascisti, che mi impaurì, io, le mie sorelle, mia madre e anche mio padre stesso; hanno visto che c’erano i cappelletti sulla tavola, e portavano rancore che mio padre non smetteva di pensarla ancora da socialista, hanno preso il lembo della tovaglia, trascinando tutto quello che era sopra, e buttando tutto a terra. E di conseguenza bastonavano anche mio padre stesso, sotto le grida mie, delle mie sorelle e di mia madre… […]”

In realtà con questo genere di attacchi i fascisti attirarono su di loro lo scherno popolare tant’è che si diffuse il detto “i fasèsta stanghèven i caplètt” (i fascisti bastonavano i cappelletti).

Settant’anni dopo la fine della dittatura, benché oggi sia possibile gustarli ogni giorno dell’anno, le tradizioni non sono cambiate: il 25 aprile e il 1 maggio i cappelletti si trovano ancora sulla tavola delle famiglie reggiane e alcune associazioni promuovono pranzi sociali a base di “Cappelletti antifascisti”.



Fonti:

Testimonianza di Oddino Cattini da “Pollicino Gnus” n.40, maggio 1997

Marco Fincardi, Racconti del 1° Maggio. Una cultura dispersa dal fascismo, Ricerche Storiche n. 64-66

 “Partigiani a tavola. Storie di cibo resistente e ricette di libertà” L. Carrara e E. Salvini, Logo Fausto Lupetti editore, 2015 pp. 60-61