Con l’entrata in guerra dell’Italia le restrizioni alimentari aumentano: è del 6 maggio 1940 la legge che dispone il razionamento dei consumi e l’introduzione della carta annonaria (Legge n. 577).

Già dal 1° luglio 1940, viene disposto il divieto di vendita del caffé e la produzione del pane è limitata a un solo tipo, prodotto con farina abburattata all’80%. Sempre dalla stessa data - poiché «la situazione contingente consiglia massima utilizzazione materie prime evitando impieghi voluttuari» e «particolare economia devesi conseguire in consumo zucchero burro grassi e simili» - è possibile vendere e consumare «pasticceria fresca e minuta e prodotti di gelateria» solo nei giorni di sabato, domenica e lunedì. Dal 30 luglio, invece, è introdotto il divieto di vendere carne - e di somministrare pietanze a base di tale alimento nei ristoranti - anche il martedì (dal settembre 1939 già non si poteva acquistare nei giorni di mercoledì e venerdì).

Nuove restrizioni alimentari colpiscono gli italiani a partire dal 1° ottobre 1940: il tasso di abburattamento della farina sale all’85% e sono sottoposti a razionamento i grassi (5 decilitri di olio, 300 grammi di burro o lardo o strutto per persona al mese). Tale quota verrà modificata nel febbraio-marzo 1941: due decilitri e mezzo di olio, 400 grammi degli altri grassi.

Il 1° dicembre 1940 viene introdotta la tessera annonaria per pasta, farina di frumento e riso che prevede, a partire da gennaio, la possibilità di consumarne due chili complessivi a testa ogni mese. Ma nel febbraio 1941 viene modificata la razione individuale, con una diversificazione regione per regione. In Emilia la tessera da diritto a 600 grammi di pasta, un chilo di riso, 400 grammi di farina di frumento per persona al mese.

A un anno dall’entrata in guerra, le relazioni dei questori riguardanti lo spirito pubblico descrivono una situazione già nettamente deteriorata: alla mancanza «sempre più accentuata dei grassi, degli olii e in particolar modo del burro, assente sul mercato anche nelle quantità previste dal fabbisogno annonario» si aggiunge la scarsità dei prodotti ortofrutticoli, del frumento (tanto che i produttori hanno dovuto «versare agli ammassi una parte delle scorte loro assegnate») e della carne di pollo e di coniglio, causata dalla carenza di mangimi essendo il granturco usato per l’alimentazione umana (Questore di Bologna, 11 e 27 giugno 1941).
Nel corso del 1941 i divieti e le regolamentazioni si susseguono: il 22 settembre viene proibita la produzione di dolci, lo smercio della carne in scatola e viene istituito il regime dei pranzi a prezzo fisso nei ristoranti.
Il 1° ottobre 1941 si arriva al tesseramento del pane: la razione, di 200 grammi a testa, è assolutamente insufficiente. Nel marzo 1942, l’anno peggiore in termini di apporto calorico, la porzione di pane diminuisce a 150 grammi per gli adulti, i 200 grammi sono destinati solo ai giovani dai 9 ai 18 anni.

Tutto viene regolamentato: la vendita delle patate, delle uova, del latte, del formaggio, dei legumi. Per il latte viene scelto il sistema di prenotazione e vendita già adottato per la carne: iscrizione sul registro di un unico lattaio e distribuzione della merce, se e quando arriva. A causa della scarsa produzione e del divieto di importazione da altre province, a Bologna la quota di latte nel gennaio 1942 viene stabilita a un decilitro il giovedì e la domenica e a un decilitro e mezzo negli altri giorni.

Il sistema dei vincoli sulla produzione e sulla distribuzione di determinati alimenti ne provoca la sparizione dal mercato: nell’autunno-inverno 1942-1943, ad esempio, dai banchi di vendita bolognesi mancano uova, baccalà, fagioli e fichi secchi, castagne, pere e mele.

La fame comincia a picchiar duro per le famiglie operaie e quelle del ceto medio impiegatizio, abituate a vivere del loro stipendio. Secondo una inchiesta sull’alimentazione degli italiani, condotta nella primavera del 1942 dall’università di Trieste, circa 2.500.000 di famiglie soffrono la fame «nel pieno senso fisiologico della parola» e almeno altrettante hanno un vitto insufficiente. Complessivamente, oltre il 40% del campione esaminato vive al di sotto del livello alimentare minimo. (P. Luzzatto Fegiz, Alimentazione e prezzi in tempo di guerra, pp. 94-95).

La drammatica situazione viene descritta da alcune testimonianze raccolte a Bologna nel maggio 1942: «Stanno malissimo gli operai delle città. In un forno a Bologna assistetti ad un colloquio fra la moglie di un operaio ed il fornaio. Fornaio: “Oggi siamo all’8 e voi avete consumato i tagliandi fino alla fine del mese. Io non vi posso dare altro pane”. Donna: “Ma che cosa devo dare da mangiare ai bambini? Non ho più nulla”». E ancora: «La gente sente molto la mancanza di pane e pasta. […]. Il deperimento degli operai e specialmente delle donne è visibile. Molti soffrono la fame nel senso più completo della parola per dar da mangiare ai bambini» (P. Luzzatto Fegiz, Alimentazione e prezzi in tempo di guerra, p. 78).

Alcuni mesi dopo è il Questore stesso che, affrontando il problema del calo generale delle prestazioni lavorative in città, allerta il potere centrale di quanto sta succedendo: «Spesso i medici hanno constatato che gli operai sono diminuiti nel peso anche di 10 e 15 chili per cui la diagnosi è quella di deperimento organico», segnalando l’esistenza di una fascia di popolazione le cui condizioni sono ormai al limite della sopravvivenza (Questore di Bologna, 30 settembre 1942).

Il disagio crescente si indirizza verso le autorità politiche, ritenute giustamente responsabili: «Non mancano le manifestazioni di insofferenza per le restrizioni alimentari, si sono notate in queste ultime settimane più numerose le scritte murali imprecanti alla guerra e alla fame, come pure pezzi di carta e cartoline fra la corrispondenza contenenti frasi di vivo risentimento contro personalità ed il regime per le attuali condizioni di vita» (Questore di Bologna, 25 novembre 1942).


Approfondimenti bibliografici:

Pierpaolo Luzzato Fegiz, Alimentazione e prezzi in tempo di guerra 1942-1943, Trieste, Università di Trieste, estratto da «Annali triestini», vol. 18, 1948.

Alberto Capatti, Alberto De Bernardi, Angelo Varni (a cura di), Storia d’Italia, Annali, vol. XIII, L’alimentazione, Torino, Einaudi, 1998.

Alberto Capatti, Massimo Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari, Laterza, 1999.

Paolo Sorcinelli, Gli italiani e il cibo. Dalla polenta ai cracker, Milano, Mondadori, 1999.

Miriam Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1987.

Alberto De Bernardi, Alimentazione di guerra, in Luca Alessandrini, Matteo Pasetti (a cura di), 1943: guerra e società, Roma, Viella, 2015.

Massimo Legnani, Consumi di guerra. Linee di ricerca sull’alimentazione in Italia nel 1940-43, in Università di Bologna, Dipartimento di discipline storiche, Guerra vissuta guerra subita, Bologna, Clueb, 1991, pp. 109-118.

Paola Zagatti, Il problema dell’alimentazione, in Brunella Dalla Casa, Alberto Preti (a cura di), Bologna in guerra 1940-1945, Milano, Franco Angeli, 1995, pp. 223-252.