Una cooperativa di consumo è un’impresa con scopi commerciali (in genere nel settore alimentare e dei prodotti di uso comune), dotata di uno o più punti vendita, nella quale i proprietari, detti soci, sono coloro che prevalentemente vi fanno acquisti. Si tratta di una forma d’impresa universalmente considerata democratica e intergenerazionale, con tratti mutualistici e solidaristici. Modello imprenditoriale nato in Inghilterra, a Rochdale, nel 1844, rapidamente diffusosi in tutto il mondo (la provincia di Bologna è considerata una delle culle della cooperazione di consumo italiana, perché qui hanno sede due tra le principali organizzazioni nazionali e cioè Coop Alleanza 3.0 e Coop Italia).

Dopo la Grande Guerra, le cooperative di consumo svolgono un’efficace azione di calmierazione dei prezzi dei generi di prima necessità, contrastando efficacemente il carovita. Gli spacci cooperativi vendono innanzitutto prodotti alimentari come farina, latte, burro, e altri del territorio, che in un centro urbano come Bologna non sono sempre di agevole reperimento. Tuttavia, il fascismo individua in questo movimento un proprio obiettivo polemico. Infatti, l’impresa cooperativa è fondata sulla democrazia assembleare esercitata dai soci ed è collegata a culture politiche di sinistra o progressiste, e comunque antifasciste. Ma soprattutto, i diretti concorrenti delle cooperative sono gli agrari, i negozianti, i piccoli imprenditori, ossia uno dei corpi sociali che costituiscono la base di massa del fascismo. Inizialmente Mussolini e i suoi attaccano violentemente la cooperazione, anche quella di consumo, con una campagna di stampa diffamatoria e denigratoria, e con una serie di raid in stile squadrista. In una di queste incursioni, l’11 gennaio 1925, è assassinato Augusto Pulega, presidente di una delle più importanti cooperative di consumo bolognesi.

Col fascismo al potere la strategia nei confronti della cooperazione viene rapidamente a modificarsi: le violenze squadriste cessano e così pure la propaganda anti-cooperativa. Si impone un approccio più istituzionale, con la progressiva imposizione di uomini vicini al partito fra i dirigenti.

Tutto ciò si accompagna a una nuova teoria economica della cooperazione. L’idea di fondo è quella di tagliare tutti i ponti con il recente passato per riscoprire una presunta purezza nella cooperazione delle origini, tradita poi dalle interpretazioni marxiste o cristiano-sociali. Tutto ciò declinato in senso nazionalista, per creare una fantomatica «cooperazione fascista» e interclassista. Il neonato regime non omologa le cooperative alle altre imprese, magari rivedendone la natura giuridica, né decide di chiuderle d’ufficio, bensì legittima questo modello entro una nuova cornice ideologica, in parte accomunandole al vecchio Ente autonomo dei consumi, creato dal sindaco Zanardi nel 1914 e anch’esso sopravvissuto al fascismo.

Sul piano economico-imprenditoriale gli anni fra le due guerre non sono del tutto negativi. La cooperazione di consumo subisce un impoverimento oggettivo, nonché un utilizzo clientelare di certe compagini governate da uomini in camicia nera, ma nel contempo la rete di vendita è veicolata verso una modernizzazione. Nel primo dopoguerra, gli spacci cooperativi hanno un layout spartano e si rivolgono prevalentemente ai ceti popolari, mentre negli anni del fascismo accentuano una dimensione commerciale. Accanto ai generi alimentari classici, compaiono sempre più dei prodotti confezionati e “di marca”, che rendono i punti vendita maggiormente accattivanti e meno localistici. È una trasformazione di rilievo per quanto avverrà nel secondo Novecento, quando la società del benessere produrrà un infoltimento della middle class che metterà in crisi e porterà al fallimento molte cooperative di consumo europee, ma non quelle italiane che già si erano attrezzate nel corso degli anni Trenta per intercettare i consumi dei ceti medi.

Lungo questi controversi percorsi, le cooperative di consumo bolognesi attraversano il ventennio e la seconda guerra mondiale e, all’indomani della Liberazione, portano un’eredità – di aziende, beni, persone, competenze – alla neonata cooperazione democratica.


Bibliografia:

Paola Furlan, La cooperazione di consumo bolognese nel fascismo, in Il PNF in Emilia Romagna. Personale politico, quadri sindacali, cooperazione, a cura di Maurizio Degl'Innocenti, Paolo Pombeni, Alessandro Roveri, Milano, Franco Angeli, 1988.

Patrizia Battilani, La creazione di un moderno sistema di imprese. Il ruolo dei consorzi della cooperazione di consumo dell’Emilia Romagna, Bologna, Il Mulino, 1999.

Andrea Baravelli, Il giusto prezzo. Storia della cooperazione di consumo in area adriatica, 1861-1974, Bologna, Il Mulino, 2008.