Dal lavoro stagionale alla produzione di massa in fabbrica

Nel 1923 la Società Anonima Cirio apre uno stabilimento a Vignola per avviare la trasformazione dei prodotti ortofrutticoli. La fabbrica stimola la crescita del settore agroalimentare nella valle del fiume Panaro e attira soprattutto manodopera femminile. La lavorazione comprende la “frutta rossa”, già coltivata in maniera diffusa nelle campagne vignolesi, e altri prodotti da conserva, tra i quali spiccano i pomodori.

Gli affari vanno bene, dunque l’azienda è indotta ad acquistare la materia prima anche altrove. Il ciclo espansivo si ripercuote anche sull’occupazione: nelle estati che precedono l’armistizio dell’8 settembre 1943 la Cirio arriva ad assumere oltre 300 operaie. I contratti però sono stagionali e non assicurano stipendi elevati. La vita delle lavoratrici è molto faticosa e deve fare i conti con i pregiudizi degli ambienti conservatori, sempre inclini a svalutare e a considerare socialmente pericoloso l’impiego delle donne.

L’industria di derivazione alimentare viene poi frenata dall’occupazione nazista. La guerra totale segna il territorio e costringe le autorità a mettere sul mercato tutta la frutta disponibile, bloccando la lavorazione industriale. Tuttavia le devastazioni non compromettono le basi dello sviluppo agroalimentare. Dopo la Liberazione i mezzadri e i coltivatori diretti della fascia pedemontana modenese rilanciano le coltivazioni ortofrutticole e l’allevamento del bestiame.

La pace non risolve completamente i problemi della fame e della miseria, ma le autorità tendono ad attenuare progressivamente il razionamento e il controllo dei viveri. Le aziende arrivano dunque a gestire un maggior quantitativo di materie prime.

Ai caseifici e alle cantine sociali, che ripartono in tutta la provincia e in diversi casi si sviluppano secondo modelli cooperativi, si affiancano aziende familiari e industrie più strutturate. La lavorazione della carne fiorisce in particolare tra Modena, Formigine, Castelnuovo Rangone e Spilamberto, dove la produzione dell’aceto balsamico diventa un elemento identitario sempre più forte.

Nel vignolese, invece, la produzione della “frutta rossa” stimola la rinascita delle industrie conserviere. Accanto alla Cirio riprendono slancio aziende che mantengono una dimensione familiare, preparando polpe di frutta e marmellate: Pomona, Altei, La Vignola e Sanlej riprendono la propria attività, ritagliandosi progressivamente nicchie di mercato.

Nel frattempo nasce l’industria Toschi, che sceglie la via della conservazione, distinguendosi nella produzione di ciliegie sotto spirito, liquori e sciroppi. Le fondamenta del settore agroalimentare si irrobustiscono, contribuendo a innescare le dinamiche del “boom” economico nella valle del Panaro.

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, dopo la chiusura dello stabilimento vignolese della Cirio, si affermano nel sistema di fabbrica altre tradizioni conserviere, nate e diffuse negli ambienti contadini tradizionali. Nascono infatti aziende, come il marchio di Ravarino Le conserve della nonna, che commercializzano passate, sottoli, sottaceti, marmellate e confetture, raggiungendo una distribuzione nazionale.


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