È alla vigilia della Grande guerra, mutuando come punto di avvio l’uscita della rivista culturale “Il Plaustro” (1911) di Aldo Spallicci, che comincia a prendere forma una nuova identità romagnola. Identità poi forgiata nel sacrificio sul fronte orientale, nella battaglie dell’Isonzo, dai fanti romagnoli dell’XI e XII reggimento della Brigata Casale, che lontani da casa si riconoscono come figli della stessa terra, capaci di tessere trame di ricordi affini fatti di canti, feste, mercati, reti sociali e politiche. Molti di loro sono uniti dall’esperienza di ricevere dalle famiglie, attraverso la corrispondenza militare, “pezzi di Romagna” (piadina o pasta secca) che evocano gusti e profumi lontani: “L’udor dla cà” (l’odore della casa) scrive Aldo Spallicci nelle celebre struggente canta “La Piê”, racconta del transfert emotivo provato da un soldato nell’aprire l’involucro postale all’interno del quale riconosce, con l’olfatto prima che con il gusto, la piadina. In quelle trincee prende consistenza l’immaginario condiviso che troverà codificazione con l’uscita della nuova rivista spallicciana “La Piê” (1919) e consacrazione nel 1921 con le “Esposizione Romagnole Riunite” tenute a Forlì. Attingendo dal patrimonio contadino (la stampa a ruggine sulle tele e la caveja per aggiogare la pariglia di bovini che trainava plaustri e aratri) Spallicci consolida in senso letterario, musicale e antropologico un codice che, veicolato tramite le associazioni dei combattenti, si afferma rapidamente.

Dopo l’avvento del fascismo questo tessuto culturale, di matrice repubblicana e popolare, è condiviso, utilizzato e “scippato” dal fascismo locale e nazionale come strumento per affermare i principi della ruralizzazione e per edificare il progetto politico che porta alla costruzione, nella propaganda del regime mussoliniano, alla “Terra del duce”, presentata come “luogo ideale di ogni italiano”. La Romagna e i luoghi d’origine di Mussolini diventano il palcoscenico da cui lanciare messaggi per il mondo rurale: la proclamazione annuale della “vittoria della battaglia del grano” o l’esaltazione della “razza bovina romagnola” nella Fiera della Grassa presso il monumentale Foro Boario. Intanto le campagne di Forlì “città del duce” e Predappio “paese natale” sono la “quinta” naturale per riprese e fotografie, ad uso di giornali, riviste, cartoline postali e cinegiornali Luce.

Con l’avvento di Starace alla guida del Pnf si mette in moto la grande macchina organizzativa dei pellegrinaggi: l’arrivo di migliaia di visitatori ai luoghi d’origine trasforma il medium (la gita) in comunicazione politica, con partito e istituzioni impegnate nel sostenere spese di trasporto e la stessa ospitalità conviviale. Sagre di prodotti tipici completano questa “vogue”, con la caveja che spunta negli edifici razionalisti e le massaie rurali in costume tipico pronte alla posa accanto all’“arzdora” Donna Rachele.
Se la visita di Vittorio Emanuele III (giugno 1938) rappresenta l’omaggio di Casa Savoia al capo del fascismo, è proprio in quello stesso periodo che ruralizzazione e spinte modernizzatrici in agricoltura, sotto la pressione delle sanzioni internazionali e della politica autarchica, cedono il passo a un depauperamento che porta al rovinoso crollo delle produzioni e alla distruzione di rilevante parte del patrimonio infrastrutturale, agronomico, zootecnico e ambientale. Sotto le macerie della guerra sopravvive l’identità romagnola, nata dal “sentire” dei soldati nelle trincee della Grande guerra. Una sopravvivenza cui contribuisce la scelta antifascista di Spallicci, costretto al carcere, alla clandestinità e a vedere soppressa la rivista “La piê”. E a rinvigorire quel tessuto influisce la sua elezione all’Assemblea Costituente. Con questo ritrovato patrimonio d’identità, Forlì e il suo territorio affrontano la ricostruzione e imboccano la strada del travolgente cambiamento che culminerà con il boom economico.


Approfondimenti bibliografici:

Roberto Balzani, La Romagna, Bologna, Il Mulino, 2012.


 

La Piê
Canta di trincea
di A. Spallicci e F. B. Pratella

“Csa j’ét, e’ mi Angiulìn,
csa j’ét in cla gulpê?”
“La j’è pr’e’ suldadin,
l’è roba da magnê!”

Oh dio la piê!
Udor dla cà
che riva i qua.
E’ sent chi ch’mâgna
êria ’d Rumâgna.
Oh dio la piê!

“Chi manda ste tvajöl,
ste bël tvajöl ’d bughê?”
“A che puret de fiol
la mama tuva ’d te.”

Oh dio la piê!
Udor dla cà
che riva i qua.
E’ sent chi ch’mâgna
êria ’d Rumâgna.
Oh dio la piê!

“Chissà quel ch'la dirà
Parchè ch' la s' fëza bon!”
“T' la megna in divuziòn”.

Oh dio la piê!
Udor dla cà
che riva i qua.
E’ sent chi ch’mâgna
êria ’d Rumâgna.
Oh dio la piê!

“Spartegna la gulpê,
ch’a j vlen pinser in dù.”
E al boc agli à magnê,
e j occ j’à un pô pianzù.

Oh dio la piê!
Udor dla cà
che riva i qua.
E’ sent chi ch’mâgna
êria ’d Rumâgna.
Oh dio la piê!